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Pratica contro Teoria

Ha destato sicuramente sorpresa la vittoria della Champions League 2021 da parte del Chelsea nei confronti del più quotato Manchester City,

ma ad una analisi più attenta ed approfondita la sorpresa si attenua e lascia lo spazio ad un fondamento di logica, la quale non può di certo spiegare una vittoria sportiva, da sempre legata ad una dose più o meno cospicua di aleatorietà, ma può fornire una traccia di pensiero.

È fuori discussione che la squadra migliore e favorita fosse quella dei Citizens di Pep Guardiola, ma è altrettanto vero che dall’arrivo di Thomas Tuchel sulla panchina dei Blues, prima occupata da Franck Lampard, non solo è cambiata la marcia e la filosofia della squadra cara a Roman Abramovich, ma la tipologia di gioco imposta dal tedesco si è mostrata particolarmente indigesta allo spagnolo che negli incroci, questo compreso, ha sempre perso.

Ora, senza tema di smentite si può scrivere che Guardiola è l’allenatore più influente al momento attuale per quel che riguarda ispirazione e idee di gioco, è altrettanto vero che a volte si perde nelle sue elucubrazioni tattiche e, purtroppo per lui, ultimamente gli è capitato in partite decisive: resta ancora indecifrabile la scelta di giocare, la scorsa edizione, il quarto contro il Lione stravolgendo l’assetto tattico della squadra, poco chiaro è parsa la formazione mandata in campo contro il Chelsea, con Ilkai Gündogan schierato davanti alla difesa, perdendo quindi le sue capacità di incursore, fondamentali nel momento che si sceglie di giocare senza attaccanti di ruolo.

Questo senza contare che giocatori del calibro di Joao Cancelo, Rodri, Ferran Torres, la finale l’hanno vista mestamente dalla panchina, con Fernandinho e Gabriel Jesus che, subentrati, hanno riequilibrato l’assetto, ma tardivamente. Maggiori certezze ha avuto il Chelsea, che Tuchel ha gestito con pragmatismo, senza cercare alchimie particolari, forse confidando proprio in quelle elucubrazioni di cui ogni tanto cade vittima il suo dirimpettaio.

Dal punto di vista degli allenatori, credo la chiave sia stata proprio questa, teoria contro pratica, e la seconda ha avuto la meglio, ma alla fine la gara l’hanno giocata i calciatori, e qui non si può non mettere sul gradino del podio più alto N’Golo Kante. Il piccolo francese è stata l’anima instancabile della squadra, con le sue prodigiose capacità atletiche e tattiche, sempre in grado di spezzare l’azione avversaria e ripartire, così come Jorginho ha reso fluida e lineare la manovra. Anche qui, però, è stato il collettivo a vincere, con la sua capacità di disinnescare la qualità avversaria, di far giocare male la squadra migliore, portandola al suo livello e lì colpendola, con la stoccata vincente di Kai Havertz, altro predestinato.

Alla fine restano le tante storie che partite come questa si portano dentro, da Guardiola che non riesce a togliersi l’etichetta di “vincente in Champions solo con Messi” a Tuchel, vincente da subentrato come Roberto Di Matteo e quasi come Avraham Grant; da Edouard Mendy, che da portiere disoccupato si è ritrovato campione d’Europa, a Thiago Silva, che arricchisce la sua bacheca con questa prima Champions. Resta il match, poi, certo non esaltante sul piano del gioco, con le due squadre che hanno puntato sul concetto tanto britannico di un calcio aggressivo e teso alla vittoria, cercando la via più rapida della riconquista della palla e della ricerca della porta avversaria.

In questo senso, chiudiamo con una notazione: la scuola allenatori italiana è, e resta, tra le migliori del mondo, ma per il terzo anno consecutivo, dopo Jürgen Klopp e Hansi Flick, è un tedesco ad alzare la Coppa dalle Grandi Orecchie. Forse, dalle parti di Coverciano, qualcosa bisogna iniziare a rivedere…

 

 

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